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sabato 29 gennaio 2011

Un ottantanove arabo?


Dopo 29 giorni di proteste popolari, il 15 gennaio 2011 la Tunisia ha cacciato il suo sultano. La Rivoluzione dei gelsomini in Tunisia si è rivelata, innanzitutto, una grande sorpresa.
Non solo e non tanto per gli intellettuali e i patrioti tunisini, che sono immersi e pienamente protagonisti di questo momento di grande speranza. Con il tempo e con l'approfondimento, certamente scopriremo che dietro questa primavera c'è stato un lungo, faticoso, doloroso inverno di semina e vigilia.
Coloro che sono stati colti più impreparati sono stati coloro che vivono ormai lontano dal Maghreb e dal mondo arabo in generale. Mona Eltahawy, una importante intellettuale arabo-egiziana, una musulmana aperta e liberale, emigrata negli Stati Uniti, ha scritto candidamente sul The Washington Post del 15 gennaio 2011: “Non una volta nei miei 43 anni ho pensato che avrei visto un leader arabo cacciato dal suo popolo”. Ben conoscendo, come sappiamo dai suoi scritti e da altri, quanto forte sia stata la cappa del conformismo delle masse e dell'autoritarismo dei regimi, nel mondo arabo.
Insieme a quel qualcosa di imprevedibile e di insperato, che ci meraviglia sempre quando vediamo il trionfo della naturale e universale aspirazione umana alla libertà, riceviamo qualche piccola conferma ad alcune delle nostre convinzioni, da questa piccola repubblica, grande poco più della metà dell'Italia, ma abitata da soli dieci milioni di abitanti.
La Tunisia ci sembra somigliare molto a un paese realsocialista dell'Europa orientale negli anni ottanta. Gli eredi del Destour hanno inseguito le proprie, non di rado pericolose, utopie nazionaliste e socialisteggianti, esattamente come i vecchi partiti comunisti, ma proprio come accadde nell'Est Europeo hanno anche lavorato per garantire salute, cibo e istruzione a fasce sempre più ampie di popolazione.
La loro leadership, dopo aver conseguito alcuni successi economici e sociali, è oggi invecchiata al potere, degenerando in una casta, che ha finito per essere insopportabile agli occhi della popolazione.
Esattamente come avvenne nell'Europa orientale, non bastano più le ubriacature ideologiche, il nazionalismo arabo, il terzomondismo, l'anticapitalismo, per imbonire le masse. Neppure lo spauracchio di Israele o di altri, veri o presunti, nemici interni o esterni, funziona più come un tempo.
In paesi come la Cina e l'Iran, ci sono ancora ampie fasce di popolazione che sostengono quei regimi, per convinzione, per conformismo, per interesse. Grandi stati come quelli, inoltre, dispongono di feroci polizie segrete e di numerose milizie paramilitari, che possono soffocare nel sangue le rivolte nelle grandi città.
La stessa cosa non è stata possibile nella piccola Tunisia, dove i ventenni che sanno leggere e scrivere in francese, arabo e magari anche inglese, che usano i cellulari, che sanno accedere a Facebook, sono la stragrande maggioranza popolare, che vuole avere voce in capitolo sul proprio futuro e su quello del paese e non potrà più essere controllata.
Da nessuno, neppure dall'estremismo islamico. Non sottovalutiamo di certo le capacità di proselitismo e di inquinamento morale, tipiche di un certo wahabismo finanziato dai sauditi e infoltito da fanatici afghani e pakistani.
Si tratta però di qualcosa che resta estraneo all'anima berbera e maghrebina e, a ben vedere, resta alieno all'orizzonte spirituale di tutte le giovani generazioni, da Rabat, al Cairo, a Beirut e forse anche oltre.
Tutto lascia pensare che la fazione più islamista che potrà concorrere alle prossime elezioni libere in Tunisia, sarà una sorta di versione locale di quel “Partito per la giustizia e lo sviluppo” (in turco Adalet ve Kalkınma Partisi, acronimo AKP), che non è molto più estremista, in campo religioso, di quanto lo fosse la nostra Democrazia Cristiana del tardo Fanfani.
Il terrorismo dei disperati, di quelli che Hans Magnus Enzensberger chiama i perdenti radicali, potrà purtroppo colpire come può sempre accadere in un paese libero, ma non vediamo come un islamofascismo bigotto, vittimista e paranoico, possa contagiare i giovani, le donne e gli intellettuali che abbiamo visto costringere Zine el-Abidine Ben Ali a fuggire all'estero dopo 23 anni di potere pressoché assoluto.
In tutto il mondo, sui media vecchi e nuovi, ci si domanda in questi giorni, in queste ore, se la scintilla tunisina potrà, oltre che consolidare una nuova stagione di libertà e di speranza in patria, dare una scossa a tutto il resto del mondo arabo e magari anche oltre, nel resto del mondo islamico, africano, asiatico, per lo più oppresso da regimi impresentabili.
Siamo di fronte a un Ottantanove arabo?
I segnali ci sono e, in alcuni paesi, anche le condizioni sociali e materiali. Esiste anche in altri paesi, come abbiamo visto nella straordinaria giornata di protesta di martedì 25 gennaio 2011 in Egitto, la possibilità che i ventenni, le donne, i dissidenti per amore della libertà, riescano a formare una straordinaria - e maggioritaria, e quindi vincente - coalizione per il cambiamento.
Yasmine El Rashidi, un'altra scrittrice musulmana e liberale, che però è rimasta nel suo Cairo, in un suo intervento sul blog della New York Review of Books, ha raccontato di questo messaggio che ha ricevuto su Twitter:
Non dimentichiamo che in Tunisia ci è voluto un mese. L'Egitto è più grosso, ci vorrà di più. Teniamo vivo il 25 gennaio”.
Mubarak, intanto, tenga pronto il suo areo.

Mauro Vaiani

Prato e Tunisi, sabato 29 gennaio 2011


Mona Eltahawy è citata da:

Yasmine El Rashidi è citata da:


Articolo scritto per Giacomo Fiaschi e il suo ballon d'essai su una possibile iniziativa culturale toscano-tunisina. Nda del 24/2/2011.

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